astrolabio

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C’era una volta una vedova che viveva con i suoi cinque giovani figli su un fazzoletto di terra irrigato, il cui magro raccolto dava loro lo stretto necessario per vivere. Un tiranno aveva usurpato i loro diritti ostruendo, con una diga, il canale che avrebbe potuto portare l’abbondanza alla famiglia. Il figlio maggiore aveva cercato a più riprese di rimuovere quell’ostacolo, ma la sua sola forza non era sufficiente e i suoi fratelli erano ancora bambini. Inoltre, sapeva bene che il tiranno avrebbe sempre potuto ricostruire la diga. I suoi sforzi, quindi, erano più eroici che efficaci.
Un giorno gli sembrò di vedere, come in una visione, suo padre; questi gli diede certe istruzioni che gli infusero un po’ di speranza. Poco tempo dopo, il tiranno, arrabbiato per l’atteggiamento indipendente del giovane, lo accusò pubblicamente di fomentare disordini e ciò suscitò l’ostilità della gente nei suoi confronti.
Il giovane partì dunque per una lontana città, dove lavorò per anni presso un mercante. Tramite mercanti itineranti mandava di tanto in tanto alla famiglia il denaro che era riuscito a risparmiare. Siccome non voleva che i suoi fratelli si sentissero in debito e dato che era meglio che i mercanti non dessero l’impressione di aiutare gente caduta in discredito, chiese loro di dare quel denaro in cambio di piccoli servigi che i suoi fratelli minori avrebbero potuto rendere loro.
Molti anni dopo arrivò il momento del ritorno del fratello maggiore. Quando giunse a casa e si presentò, solo uno dei fratelli lo riconobbe, e a malapena, tanto era invecchiato.
“Mio fratello maggiore aveva i capelli neri”, disse il più giovane.
“Ma sono invecchiato, da allora”, rispose il maggiore.
“Noi non siamo mercanti”, disse un altro. “Come può un uomo che si veste e parla così, essere uno di noi?”.
Il maggiore gli spiegò il perché, ma non riuscì a convincerlo del tutto.
“Mi ricordo quando eravate tutti e quattro a mio carico e di come anelavate all’acqua zampillante che era intrappolata nella diga”, disse il maggiore.
“Non ce lo ricordiamo”, risposero, perché col tempo si erano dimenticati della loro condizione.
“Ma vi ho fatto avere delle somme di denaro che vi hanno permesso di vivere dopo che siete rimasti completamente senz’acqua”, insistette il maggiore.
“Non ci ricordiamo d’aver ricevuto alcunché! Non abbiamo mai avuto altro denaro, all’infuori di quello che ci siamo guadagnato per i servizi resi a viaggiatori di passaggio”, risposero in coro.
“Descrivici nostra madre”, chiese uno dei fratelli, che voleva ancora delle prove.
Tuttavia, dato che la loro madre era morta da molti anni e che i loro ricordi si erano sbiaditi, ebbero tutti da ridire sulla descrizione che ne fece il fratello maggiore.
“Bene, supponiamo che tu sia veramente nostro fratello … Che sei venuto a dirci?”.
“Che il tiranno è morto; che i suoi soldati hanno disertato e sono andati via per cercare altri padroni che li tengano occupati; che finalmente è arrivato il momento per tutti noi di far rivivere questa terra, di riportare la felicità e la fertilità”.
“Non ricordo alcun tiranno”, disse il primo fratello.
“La terra è sempre stata così com’è oggi”, disse il secondo.
“Perché dovremmo fare ciò che tu dici?”, contestò il terzo.
“Mi piacerebbe aiutarti, ma non capisco bene di che parli”, disse il quarto.
“Inoltre”, disse il primo, “non ho bisogno di acqua. Io raccolgo ramoscelli secchi con i quali accendo il fuoco. I mercanti si fermano vicino al mio fuoco e mi pagano per fare le loro commissioni”.
“L’acqua”, aggiunse il secondo, “servirebbe solo a far traboccare il piccolo stagno dove allevo le mie carpe ornamentali. A volte i mercanti si fermano per ammirarle e mi danno un po’ di soldi”.
“Per quanto mi riguarda”, disse il terzo fratello, “non mi dispiacerebbe avere l’acqua, ma non so se potrà far rinverdire questa terra”. Il quarto fratello non disse nulla.
“Mettiamoci al lavoro”, propose il maggiore. “Aspettiamo, piuttosto; può darsi che i mercanti ripassino di qui”, risposero gli altri.
“Non verranno di certo!”, disse il maggiore, “dato che ero io a mandarveli”.
E continuavano a discutere all’infinito. In quella stagione i mercanti non presero la strada che attraversava la loro terra. La neve aveva bloccato i valichi di accesso, com’era frequente in quel periodo dell’anno.
Prima che tornasse la stagione delle carovane sulla Via della Seta, apparve un secondo tiranno, peggiore del primo. Non essendo ancora sicuro di se nel suo ruolo di usurpatore, si appropriava solo delle terre incolte. Vide la diga, e il suo stato di abbandono accrebbe il suo desiderio; non solo se ne impadronì, ma decise anche, non appena sarebbe stato abbastanza potente per farlo, di ridurre i cinque fratelli in schiavitù. Erano tutti robusti, compreso il maggiore.
I fratelli stanno ancora discutendo ed è molto improbabile che ora qualcosa possa fermare il tiranno.

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Questa storia, la cui origine risale a Abu-Alì Muḥammad, figlio di El-Qasim El-Rudbari, è molto conosciuta nella Via dei Maestri, la Tariqa-i-Khwajagan.
Chiarisce le origini misteriose degli insegnamenti sufi, i quali provengono da un luogo, pur dando l’impressione di provenire da un altro, in quanto la mente umana non può percepire (come i fratelli del racconto) la ‘vera sorgente’.
Rudbari fa risalire la ‘Catena di Trasmissione’ del suo insegnamento agli antichi Sufi, e particolarmente a Shibli, Bāyazīd e Hamdun Qassar