La formica e la libellula

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Una formica che aveva in mente un programma preciso stava guardando il nettare di un fiore, quando una libellula scese in picchiata per attingere al calice. Si allontanò volteggiando, per poi tornare di nuovo.

Questa volta la formica le disse:
“Tu vivi senza lavorare e non hai nessun programma. Visto che non hai ne uno scopo reale ne uno relativo, qual è la caratteristica dominante della tua vita, e dove ti porterà?”.

La libellula rispose:
“Sono felice e ricerco il piacere. Questo mi basta, sia come esistenza sia come obiettivo. Il mio scopo è di non avere scopi. Tu puoi fare tutti i progetti che vuoi, ma non riuscirai a convincermi che c’è qualcosa di meglio. Tu segui il tuo piano; io seguo il mio”.

La formica pensò:
“Ciò che per me è visibile, per lei è invisibile. Lei non sa che cosa succede alle formiche, ma io so quello che succede alle libellule. Che segua il suo piano; io seguirò il mio”.

E avendo messo in guardia la libellula nei limiti permessi dalle circostanze, la formica proseguì per la sua strada. Qualche tempo dopo, le loro strade si incrociarono di nuovo.

La formica aveva trovato il negozio di un macellaio e si era sistemata con discrezione sotto il tagliere, nell’attesa di ciò che avrebbe potuto ricavarne.
La libellula, che stava volteggiando al di sopra del tagliere, non appena vide quella carne rossa scese e andò a poggiarvisi sopra. In quell’istante il coltello del macellaio si abbatté e tranciò la libellula in due.

Una metà del corpo cadde a terra ai piedi della formica, che si impadronì del cadavere e cominciò a trascinarlo fino alla sua tana recitando tra sé e sé: “Il suo piano finisce qui; il mio, invece, continua. ‘Che segua il suo piano’ si è concluso, mentre ‘io seguirò il mio’ comincia un nuovo ciclo. L’orgoglio sembrava importante, ma era una cosa transitoria. Una vita per mangiare che finisce facendosi mangiare da qualcos’altro. Quando ho fatto allusione a tutto ciò, l’unica cosa che le è venuta in mente è che ero una guastafeste”.

* * *

Si ritrova quasi lo stesso racconto nel Libro divino di ‘Aṭṭār, benché l’uso che ne viene fatto sia leggermente diverso da quello di questa versione, raccontata da un derviscio di Bukhara vicino alla tomba di Bahāuddīn Naqshband, sessant’anni fa, e trascritta in un quaderno sufi conservato nella Grande Moschea di Jalalabad.