Maruf il calzolaio

Tezhib islamico (illuminazione)

Tezhib islamico (illuminazione)

 

C’era una volta un calzolaio di nome Maruf che viveva al Cairo con sua moglie Fatima, una vera arpia. Costei lo trattava così duramente, rendendogli il male per ogni sua buona azione, che Maruf cominciò a considerarla come l’incarnazione stessa dell’inspiegabile spirito di contraddizione universale.
Schiacciato da un sentimento di vera ingiustizia e in preda alla più cupa disperazione, Maruf si rifugiò in un monastero in rovina nei dintorni della città, dove sprofondò nella preghiera e nelle suppliche. “Signore”, implorava senza tregua, “ti supplico di indicarmi le vie della mia liberazione, affinché io possa andare il più lontano possibile e trovare speranza e sicurezza”.
Stava pregando così da molte ore, quando accadde un fenomeno stupefacente. Un essere molto alto e dall’aspetto strano sembrò attraversare la parete di fronte a lui alla maniera degli Abdal, i ‘trasformati’, esseri umani che hanno raggiunto poteri che superano di gran lunga quelli dell’uomo ordinario.
“Sono l’Abdel-Makan, il servitore di questo luogo”, disse l’apparizione. “Che vuoi da me?”. Maruf gli confidò i suoi problemi. Il ‘trasformato’ si caricò Maruf sulle spalle e insieme volarono nel ciclo per molte ore, a incredibile velocità. Allo spuntar dell’alba Maruf si ritrovò in una lontana e magnifica città ai confini con la Cina.
Qualcuno lo fermò per strada e gli chiese chi era. Maruf glielo disse e mentre tentava di spiegare come fosse arrivato fin lì, fu circondato da una torma di zotici che cominciarono a tirargli bastoni e sassi accusandolo di essere un pazzo o un emerito imbroglione.
Stavano ancora malmenando lo sfortunato calzolaio, quando arrivò un mercante a cavallo che li disperse. “Vergognatevi!”, disse. “Uno straniero è un ospite, legato a noi dal sacro vincolo dell’ospitalità e degno della nostra protezione”. Quell’uomo si chiamava Ali.
Ali spiegò al suo amico come era passato dalla miseria alla ricchezza in quella strana città di Ikhtiyar. I mercanti del luogo – così sembrava – erano generalmente più inclini di altre persone a prendere un uomo in parola. Se questi era povero, non gli davano molte possibilità di riuscita nella vita, in quanto ritenevano che fosse povero perché così doveva essere. Se, d’altro canto, sentivano dire che era un uomo ricco, gli davano considerazione, credito e onore.
Ali aveva scoperto questo fatto. Di conseguenza, si era recato da parecchi ricchi mercanti della città e aveva chiesto loro un prestito affermando che stava aspettando l’arrivo di una sua carovana. Non appena ottenuto il prestito, Ali aveva moltiplicato il capitale commerciando nei grandi bazar, ed era riuscito sia a restituire il capitale iniziale sia ad arricchirsi. Ali consigliò Maruf di fare altrettanto.
E fu cosi che Maruf, rivestito dal suo amico di tutto punto, si recò da diversi mercanti per farsi concedere un prestito. L’unica differenza era che, a causa della sua natura caritatevole, Maruf donava il denaro ai mendicanti. La sua carovana, dopo mesi di attesa, non dava segni del suo arrivo. Maruf non combinava affari, ma la sua carità aumentava in quanto la gente faceva a gara per prestare denaro a un uomo che lo spendeva subito in opere di carità.
In tal modo la gente pensava di recuperare il denaro prestato quando la carovana sarebbe arrivata e, al tempo stesso, di beneficiare della benedizione connessa agli atti di generosità. Tuttavia, col passar del tempo, i mercanti cominciarono ad avere dei dubbi e a chiedersi se Maruf, dopo tutto, non era un impostore. Andarono quindi a lamentarsi dal re della città, il quale decise di convocare il vecchio calzolaio.
Il re era molto incerto nei confronti di Maruf e alla fine decise di metterlo alla prova. Egli possedeva un gioiello di grande valore; lo avrebbe regalato a Maruf il mercante per vedere se sapeva riconoscerne il valore. Se lo avesse apprezzato, il re – che era un uomo avido – gli avrebbe dato in sposa sua figlia. In caso contrario, lo avrebbe fatto buttare in prigione.
Maruf si presentò a corte e gli fu dato in mano il gioiello. “È per te, buon Maruf”, gli disse il re. “Ma, dimmi, perché non paghi i tuoi debiti?”.
“Maestà, la mia carovana, che trasporta beni di inestimabile valore, non è ancora arrivata. Quanto a questo gioiello, credo sia preferibile che Vostra maestà lo tenga perché è senza valore rispetto ai gioielli veramente preziosi che viaggiano con la mia carovana”.
Sopraffatto dall’avidità, il re congedò Maruf e fece consegnare un messaggio al rappresentante dei mercanti, ordinando loro di tacere. Poi decise di dare la principessa in moglie al mercante, malgrado l’opposizione del Gran Visir, che non si faceva scrupolo di dire che Maruf era un gran bugiardo. Dato che erano anni che il visir chiedeva la mano della principessa, il re attribuiva i suoi consigli al pregiudizio.
Quando seppe che il re voleva concedergli la mano di sua figlia, Maruf rispose semplicemente al visir: “Dì a sua maestà che, finché la mia carovana carica di inestimabili gioielli e di altre meraviglie non sarà arrivata, non potrò provvedere ai bisogni di una sposa del rango di principessa. Suggerisco, di conseguenza, che il matrimonio venga rinviato”.
Quando gli fu riferita la risposta di Maruf, il re gli offrì senza esitazione di attingere al tesoro reale, in modo da poter scegliere ciò di cui aveva bisogno per adottare un tenore di vita adeguato e offrire doni consoni al rango di un genero del re.
Un matrimonio simile non si era mai visto, ne in quel paese ne altrove. Non solo furono donati ai poveri gioielli a manciate, ma tutti coloro che avevano anche solo sentito parlare del matrimonio, ricevettero un sontuoso regalo. Le celebrazioni, di una magnificenza senza precedenti, durarono quaranta giorni.
Quando furono finalmente soli, Maruf disse alla giovane sposa: “Ho già preso così tanto a tuo padre da sentirmi in qualche modo preoccupato”. Aveva bisogno di spiegare il sordo malessere che lo pervadeva. “Non pensarci”, disse la principessa, “quando la tua carovana sarà giunta, andrà tutto bene”.
Intanto, il visir ricominciò a sollecitare al re un attento esame della situazione di Maruf. Decisero di fare appello alla principessa, la quale accettò di aiutarli a chiarire il tutto al momento opportuno. Quella notte, mentre riposavano tra le braccia l’uno dell’altra, la principessa chiese al suo sposo di spiegarle il mistero del mancato arrivo della carovana. Proprio in quel giorno, Maruf aveva confermato al suo amico Ali di possedere veramente una carovana inestimabile. Tuttavia, ora decise di dire la verità. “Non c’è nessuna carovana”, confessò, “e benché il visir abbia ragione, le sue parole sono solo l’espressione della sua avidità. Ed è altrettanto per avidità che tuo padre mi ha concesso la tua mano. E tu, perché hai acconsentito a sposarmi?”.
“Sei mio marito”, rispose la principessa, “e non potrò mai disonorarti. Prendi queste cinquantamila monete d’oro, lascia il paese, e non appena sarai al sicuro mandami un messaggio; io ti raggiungerò in tempo debito. E ora lascia che mi occupi della situazione a corte”. Travestito da schiavo, Maruf fuggì nel cuore della notte.
Il giorno seguente, quando il re e il visir convocarono la principessa Dunia e le chiesero di fare il suo rapporto, la risposta fu: “Padre rispettato e onorato visir, stavo per affrontare l’argomento con Maruf, mio sposo, la notte scorsa, quando è accaduta una cosa strana”. “Che cosa?”, esclamarono i due uomini all’unisono.
“Dieci mamelucchi, vestiti sontuosamente, si sono presentati alla finestra del palazzo, latori di una lettera del capo carovana di Maruf. La lettera spiegava il motivo del ritardo della carovana: era stata attaccata da una banda di beduini. Su cinquecento guardie, cinquanta erano state uccise e duecento carichi di cammelli erano stati sequestrati”.
“E che ha detto Maruf?”. “Non ha detto gran che. Per lui, duecento carichi di cammelli e cinquanta vite umane non sono nulla! In ogni caso, è partito immediatamente, e al galoppo, per andare incontro alla carovana e condurla personalmente fino a noi”.
In tal modo la principessa guadagnava tempo. Maruf, dal canto suo, galoppò senza tregua e senza sapere dove andava, finché si imbattè in un contadino che stava arando un fazzoletto di terra. Lo salutò e il contadino gli disse, dal profondo del cuore: “Accetta di essere mio ospite, grande schiavo di sua maestà reale. Ti porterò del cibo e mangeremo insieme”.
Il contadino si allontanò rapidamente e Maruf, toccato dalla sua gentilezza e desideroso a sua volta di aiutarlo, decise di continuare ad arare il campo. Aveva appena scavato qualche solco, quando l’aratro urtò contro una pietra. Rimossa la pietra, si accorse che nascondeva dei gradini che scendevano sottoterra. Maruf scese la scala e si ritrovò in un’immensa sala piena di innumerevoli tesori.
In una teca di cristallo brillava un anello. Lo prese e se lo strofinò sul vestito: una strana apparizione si materializzò all’istante e si rivolse a lui: “Eccomi, sono tuo servitore, mio signore!”.
Maruf scoprì che questo Ginn si chiamava ‘il padre della felicità”, che era uno dei più potenti capi dei Ginn e che il tesoro era appartenuto al re Shaddad, figlio di Aadd. ‘Padre della felicità” era ora lo schiavo di Maruf.
Il calzolaio ordinò che il tesoro fosse riportato in superficie. Poi lo fece caricare su cammelli, muli e cavalli che il Ginn aveva materializzato. Grazie al potere di altri Ginn che erano al servizio del ‘padre della felicità”, vennero alla luce anche molte altre merci preziose, e ben presto la carovana fu pronta a partire. Quando il contadino tornò con un po’ d’orzo e di legumi e vide Maruf in mezzo a tutti quei tesori, credette di essere in presenza di un re. Maruf gli diede un po’ di oro e gli raccomandò di chiedere in seguito una ricompensa maggiore. Accettando l’ospitalità del contadino, si limitò a mangiare i legumi e l’orzo.
Maruf mandò avanti i Ginn (che avevano assunto le sembianze di uomini e di animali) e quando questi raggiunsero la città del rè, suo suocero, questi si arrabbiò molto col visir per aver insinuato che Maruf era solo un miserabile. Quando le giunse la notizia che una splendida carovana era alle porte del palazzo e che apparteneva al suo sposo, la principessa non seppe che pensare. Sospettò che Maruf le avesse mentito per mettere alla prova la sua lealtà.
Ali, l’amico di Maruf, dal canto suo suppose che quella straordinaria carovana fosse opera della principessa, che aveva sicuramente concepito qualche stratagemma per salvare la reputazione e la vita di suo marito. I mercanti che avevano prestato denaro a Maruf e si erano meravigliati della generosità con la quale lo aveva subito prodigato, furono ancora più stupefatti di fronte alla quantità di oro, gioielli e regali di ogni sorta che ora stava distribuendo ai poveri e ai bisognosi.
Il visir, tuttavia, era ancora sospettoso. Disse al re che non si era mai visto a memoria d’uomo un mercante comportarsi in quel modo, e gli propose di tendergli una trappola. Con uno stratagemma lo attirò in un giardino, dove lo inebriò talmente di vino e di musica che l’ebbrezza sciolse la lingua di Maruf, il quale confessò la verità. Il visir prese quindi l’anello magico, senza che Maruf opponesse la benché minima resistenza. Poi fece apparire il Ginn e gli ordinò di far sparire Maruf nel luogo più remoto del deserto. Mentre lo insultava per aver rivelato il prezioso segreto, il Ginn fu ben felice di afferrare Maruf e di lanciarlo nel deserto di Hadramut. Poi il visir ordinò al Ginn di catturare il re, suo padrone, e di lanciarlo nel deserto insieme a Maruf. Poi s’impadronì del potere e provò anche a sedurre la principessa.
Quest’ultima, tuttavia, quando il visir le si avvicinò, s’impadronì dell’anello che questi portava al dito, lo strofinò e ordinò al Ginn di incatenare il ministro. Nel giro di un’ora, il Ginn riportò il re e Maruf a palazzo. Il visir fu condannato a morte per alto tradimento e Maruf prese il suo posto come primo ministro. Dopodichè vissero tutti felici e contenti. Alla morte del re, Maruf gli succedette sul trono. Ora aveva un figlio. La principessa conservò l’anello. Poi si ammalò e affidò il bambino e l’anello a Maruf. Morì pregandolo di vegliare su entrambi.
Non molto tempo dopo, mentre si trovava a letto, il re Maruf si svegliò di soprassalto. Al suo fianco vide una donna che non era altro che la sua prima sposa, l’orrenda Fatima, che era stata trasportata lì per magia. Costei gli spiegò ciò che le era accaduto.
Dopo che Maruf era sparito, la donna si era pentita e si era messa a mendicare. La sua vita era diventata sempre più dura e ben presto si era ritrovata nella miseria più nera. Una notte, sdraiata a terra cercando di dormire, aveva chiamato aiuto dal più profondo della sua disperazione; un Ginn le era apparso e le aveva raccontato le avventure di Maruf da quando l’aveva lasciata. La donna aveva chiesto di essere condotta a Ikhtiyar e così fu, trasportata alla velocità della luce.
Ora la donna era molto contrita e Maruf accettò di riprenderla come moglie. L’avvertì, tuttavia, che ormai egli era un re e che possedeva un anello magico il cui servitore era il grande Ginn ‘padre della felicità”. Fatima lo ringraziò umilmente e prese il suo posto come regina. Tuttavia, odiava il piccolo principe.
Ora, ogni sera, Maruf si sfilava l’anello magico dal dito. Fatima se ne accorse e una notte penetrò nella stanza del re per impossessarsene. Il fanciullo, tuttavia, l’aveva seguita e quando la vide rubare l’anello, spaventato all’idea che lei potesse usare questo nuovo potere, sguainò la spada e trafisse la strega.
E fu così che Fatima la falsa trovò la strada della tomba nel luogo stesso della sua maggior gloria. Maruf chiamò quindi accanto a sè l’onesto contadino che era stato lo strumento della sua salvezza e lo nominò primo ministro. Ne sposò la figlia e vissero tutti nella felicità e nella prosperità.

* * *

Come molti altri racconti dervisci, questo si trova anche nelle Mille e una notte. Contrariamente alla maggior parte delle allegorie sufi, non lo si trova mai in forma poetica. E contrariamente anche alla maggior parte di queste allegorie, a eccezione del ciclo di Mulla Nasruddin, viene talvolta rappresentato in forma teatrale nelle Chaikhana (case da tè).
A differenza delle storie occidentali, questo racconto non contiene alcuna morale, ma mette in evidenza certe relazioni di causa-effetto che costituiscono un tratto caratteristica di parte della letteratura sufi.