Come Rispondere a chi dice che il Sufismo è Bid’a

© Nuh Ha Mim Keller 1995

Io risponderei andando a vedere il punto di vista dei tradizionali ulama o studiosi islamici. Per il periodo più lungo della storia islamica, dalla dinastia ommayyade a quella abbasside, passando per i mamelucchi, fino al termine del periodo ottomano durato seicento anni, il Sufismo è stato insegnato e interpretato come una disciplina islamica, come la esegesi del Qur’an (tafsir), gli hadith, la recitazione del Qur’an (tajwid), i principi della fede (‘ilm al-tawhid) o altri ancora, ognuno dei quali ha preservato alcuni particolari aspetti del din o religione dell’Islam. Nonostante i dettagli e la terminologia di queste discipline della shari’a fossero sconosciuti alla prima generazione di musulmani, quando vennero alla luce essi non furono considerati bid’a o “innovazioni deplorevoli” dagli ulema della shari’a, dal momento che per loro un bid’a non riguardava i mezzi, ma piuttosto le finalità o, in modo più specifico, quelle finalità la cui validità non è attestata in alcun modo nell’Islam.

Per illustrare questo punto, possiamo notare che il Profeta (Allah lo benedica e gli doni pace) non ha mai pregato in tutta la sua vita in una moschea costruita in calcestruzzo rinforzato, con un pavimento ricoperto da tappeti e le finestre munite di vetrate, e via dicendo, e nonostante questo nessuno considera bid’a queste cose, dal momento che a noi musulmani è stato comandato di riunirci nelle moschee per eseguire la preghiera, e i nuovi e grandi edifici destinati alla preghiera sono semplicemente un mezzo per espletare questo comandamento.

Nel regno della conoscenza, i libri contenenti interpretazioni dettagliate del Qur’an, versetto dopo versetto e sura dopo sura, non erano noti alla prima generazione dell’Islam, nè tra di loro era di uso corrente il termine tafsir (esegesi) e, nonostante questo, dal momento che la letteratura del tafsir nacque per aiutare a preservare un aspetto vitale della rivelazione, ovvero la comprensione del Qur’an, essa fu interpretata come un mezzo per servire una finalità comandata dalla shari’a, e non venne condannata come bid’a. La stessa cosa vale per la maggior parte delle scienze islamiche, come il ‘ilm al-jarh wa tadil o “scienza del soppesare i fattori positivi e negativi durante la valutazione della affidabilità dei narratori di hadith”, o il ilm al-tawhid, “la scienza dei principi della fede islamica”, e altre discipline essenziali per la shari’a. In questo contesto, l’Imam Shafi’i (d. 204/820) ha affermato, “Qualsiasi cosa trovi il suo supporto (mustanad) nella shari’a non è bid’a, anche se i primi musulmani non la praticavano” (Aḥmad al-Ghimari, Tashnif al-adhan, Cairo: Maktaba al-Khanji, n.d., 133).

In modo analogo, il ‘ilm al-tasawwuf, “la scienza del Sufismo” venne alla luce per preservare e trasmettere un particolare aspetto della shari’a, ovvero l’ikhlas o sincerità. Fu riconosciuto che la sunna del Profeta (Allah lo benedica e gli doni pace) non era solo parole e azioni, ma anche stati dell’essere: che un musulmano non deve limitarsi a dire e a fare certe cose, ma deve anche essere qualcosa. Ad esempio, la shari’a comanda in molti versetti del Qur’an e in numerosi hadith profetici di temere Allah, di essere sinceri nei Suoi riguardi, di essere talmente certi della propria conoscenza di Allah da adorarLo come se Lo si potesse vedere, di amare il Profeta (Allah lo benedica e gli doni pace) più che qualsiasi altro essere umano, di mostrare amore e rispetto nei confronti di tutti i fratelli musulmani, di mostrare pietà, e di conservare molti altri stati del cuore. È parimenti proibito a tutti noi assumere stati interni per amore del nostro ego quali ad esempio invidia, arroganza, orgoglio, arroganza, attaccamento a questo mondo e ira. A titolo di esempio, Al-Hakim al-Tirmidhi riporta, con una catena di trasmissione giudicata rigorosamente autentica (sahih) da Ibn Main, l’hadith:

“L’ira guasta la fede (iman), come [l’asprezza della] linfa di aloe guasta il miele”
(Nawadir al-usul. Istanbul 1294/1877. Ristampa. Beirut: Dar Sadir, n.d., 6).

Se ci poniamo a riflettere su questi stati, che sono obbligatoriamente da raggiungere o da eliminare, notiamo che essi derivano da disposizioni, non solo mancanti all’interno del cocciuto cuore umano, ma acquisite solamente attraverso un certo sforzo, che comporta un cambiamento talmente profondo nell’uomo, che il Qur’an in molti versetti lo definisce purificazione, come quando Allah dice ad esempio nella sura al-Ala:

“Ha successo colui che si purifica”
(Qur’an 87:14)

L’obiettivo della scienza del Sufismo è di determinare questo cambiamento, è non può essere definita un bid’a, in quanto la shari’a ci comanda di realizzare questo cambiamento.

A livello pratico, la natura di questa scienza che prevede la purificazione del cuore (come praticamente tutte le altre discipline islamiche tradizionali) richiede che la conoscenza venga appresa da coloro che la posseggono. Ecco spiegato perché, da un punto di vista storico, troviamo gruppi di studenti raccolti intorno a particolari sceicchi allo scopo di apprendere da essi la disciplina del Sufismo. Sebbene ogni tariqat ha enfatizzato differenti modi per realizzare l’unione del nostro cuore ad Allah comandato dalla rivelazione islamica, alcuni aspetti si possono riscontrare in tutte le tariqat, come ad esempio l’apprendimento della conoscenza da un maestro attraverso precetti ed esempi, e quindi l’accrescimento metodico della propria iman o fede applicando questa conoscenza attraverso la realizzazione di atti di adorazione obbligatori e impegnativi, tra i quali il più grande è il dhikr o ricordo di Allah. Sono molti i passi del Qur’an e della sunna che attestano la validità di questo approccio, come ad esempio un hadith riportato da al-Bukhari in cui si trova detto:

Allah l’Altissimo dice: “….Il Mio servo Mi si avvicina con niente a Me più caro se non con ciò che Io ho reso obbligatorio per lui, ed il Mio servo continua ad accostarsi a Me con le sue opere volontarie, fino a conquistare il Mio amore. E quando Io lo amerò, Io sarò le orecchie attraverso cui ascolterà, gli occhi attraverso cui vedrà, le mani attraverso cui afferrerà, e i piedi attraverso cui camminerà. Se egli Mi chiederà, Io sicuramente gli concederò, e se egli cercherà rifugio in Me, Io sicuramente lo proteggerò (Sahih al-Bukhari. 9 vol. Cairo 1313/1895. Ristampa (9 vol. in 3). Beirut: Dar al-Jil, n.d., 5.131: 6502),

che rappresenta un modo per esprimere che quella persona ha acquisito la consapevolezza perfetta del tawhid o “unità di Allah” richiesta dalla shari’a, che comporta la totale sincerità nei confronti di Allah in tutte le nostre azioni. In seguito a questo e a molti altri hadith, gli ulama tradizionali hanno da tempo capito che l’ilm o “Sacra Conoscenza” non è sufficiente in sè stessa, ma che implica inoltre l’amal o “applicazione di ciò che si conosce”, esattamente come il conseguente hal o “stato spirituale encomiabile” menzionato nell’hadith.

In tutte le epoche islamiche fu percepito che quando uno studente riesce a congiungere questi aspetti, le sue parole rispecchiano la sua umiltà e sincerità, e per questo entrano nei cuori degli ascoltatori. Questo è il motivo per cui vediamo che molti degli studiosi islamici ai quali Allah donò tawfiq o successo nel loro sforzo erano Sufi. In verità, gettare al vento tutte le opere tradizionali sulle scienze islamiche realizzate da coloro che furono educati dai Sufi significherebbe scartare il 75 percento o più dei testi dell’Islam. Tra questi uomini sono compresi studenti quali l’Imam di Hanafi Muḥammad Amin Ibn Abidin, lo Sceicco al-Islam Zakaria al-Ansari, l’Imam Ibn Daqiq al-Eid, l’Imam al-Izz Ibn Abd al-Salam, Abd al-Ghani al-Nabulsi, lo Sceicco Aḥmad al-Sirhindi, lo Sceicco Ibrahim al-Bajuri, l’Imam al-Ghazali, Shah Wali Allah al-Dahlawi, l’Imam al-Nawawi, il maestro di hadith (hafiz, un uomo che conosce a memoria 100.000 hadith) Abd al-Adhim al-Mundhiri, il maestro di hadith Murtada al-Zabidi, il maestro di hadith Abd al-Rauf al-Manawi, il maestro di hadith Jalal al-Din al-Suyuti, il maestro di hadith Taqi al-Din al-Subki, l’Imam al-Rafi’i, l’Imam Ibn Hajar al-Haytami, Zayn al-Din al-Mallibari, Aḥmad ibn Naqib al-Misri, e molti, molti altri ancora.

La propensione dell’Imam al-Nawawi nei confronti del Sufismo è ben delineata nella sua opera Bustan al-arifin [Il bosco dei conoscitori di Allah] sul soggetto, e i suoi riferimenti al famoso manuale Sufi “Ar-Risala al-Qushayriyya” di al-Qushayri attraverso il suo Kitab al-adhkar [Libro dei ricordi di Allah], oltre al fatto che quindici delle diciassette citazioni riguardanti la sincerità (ikhlas) e l’essere onesti (sidq), presenti in una sezione introduttiva alla sua più grande opera legale (al-Majmu: sharh al-Muhadhdhab. 20 vol. Cairo n.d. Ristampa: al-Maktaba al-Salafiyya, n.d., 1.1718), appartengono a Sufi i cui nomi appaiono in “Tabaqat al-Sufiyya” [Le generazioni successive di Sufi] di as-Sulamī. Persino Ibn Taymiyya (le cui visioni sul Sufismo rimangono stranamente poco familiari persino a coloro che lo considerano il loro “Sceicco dell’Islam”) dedicò i volumi X e XI del suo “Majmu al-fatawa” al Sufismo, mentre il suo studente Ibn Qayyim al-Jawziyya concepì il suo Madarij al-salikin in tre volumi come un commento dettagliato al “Manazil al-sairin” di Abdullah al-Ansari, una guida alle maqamat o “stazioni spirituali” del percorso Sufi. Questi e molti altri studiosi musulmani ebbero una conoscenza diretta del valore del Sufismo in qualità di disciplina subordinata della shari’a necessaria per purificare il cuore e questa fu la ragione per cui la Umma, nella sua unità, non giudicò il Sufismo un bid’a fino dai tempi remoti della civilizzazione islamica, ma piuttosto riconobbe in esso la scienza dell’ikhlas o sincerità così fortemente necessaria ad ogni musulmano nel “giorno in cui a nulla serviranno ricchezze e figli, e solo varrà chi avrà portato ad Allah un cuore puro” (Qur’an 26:88). E solo Allah dona il successo.

© Nuh Ha Mim Keller 1995